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Camões, Luis Vaz de.

Poeta portoghese. La sua biografia è assai incerta e problematica. Perfino la sua nascita rimane avvolta nel mistero: incerta la data (1524 o 1525), incerta la città che gli diede i natali (Lisbona o Coimbra). Pare discendesse da un vecchio casato di hidalgos della Galizia, da tempo trasferitosi nel Portogallo e impoveritosi al punto da costringere il padre del poeta a comandare un vascello e a morire a Gôa, allora capitale dell'India. Quanto alla madre, Ana de Sa, sopravvisse al figlio (spentosi nel 1580), sostentandosi con una misera pensione. Secondo la tradizione, causa dell'"esilio" di cui il poeta si lamenta sarebbe stato l'amore per una dama di corte, Caterina de Ataide; ma al riguardo si hanno ben poche notizie, sebbene il poeta parli di Caterina in vari componimenti (chiamandola però Natercia). Di sicuro si sa che il poeta condusse sempre una vita avventurosa e povera, "con una mano alla penna e l'altra alla spada", come si compiace di dire di se stesso; fu non di rado in grazia ai potenti ma venne più volte rinchiuso in carcere. Compì gli studi a Coimbra, senza peraltro avere il tempo di frequentarne l'università; fu poi a corte, ove conobbe più donne, benché l'unica cantata nelle sue liriche fosse la Caterina di cui già s'è detto, spentasi nel fiore degli anni. Partì poi per l'Africa, ove fu soldato nella guarnigione di Ceuta e perse un occhio in battaglia. Tornato a Lisbona, venne rinchiuso in carcere per aver ferito un paggio di corte in una rissa scoppiata durante la processione del Corpus Domini. Successivamente viaggiò (1553) per gli oceani, navigando dall'India alla Cina alla Persia, tornando di quando in quando a Gôa. Pare anche che abbia subito un naufragio, alla foce del fiume indocinese Mekong. Nonostante Gôa, il cuore dell'India portoghese, gli permettesse di vivere, non si peritò di definirla sarcasticamente come la nuova Babilonia, cui il poeta contrappose, novella Sion, la sua Lisbona. Per ben 17 anni, tuttavia, il poeta rimase lontano da Lisbona, compiendo nel frattempo puntate nella penisola di Malacca e perfino in Mozambico. Qui, finalmente, alcuni amici influenti gli fornirono vesti e danaro per consentirgli di rientrare in patria (1570). Un paio d'anni dopo lo sbarco definitivo, C. diede alle stampe il suo poema, ottenendone in compenso dal sovrano una pensione di 15.000 reis all'anno. I successivi otto anni sono tra i più oscuri della vita del poeta. Pare sia morto all'improvviso, nel giugno 1580, per la peste che imperversava ovunque in quell'anno. Un'intonazione eroica caratterizza il suo poema epico Os Lusiados: una sorta di Odissea o di Eneide rivisitata e aggiornata, in onore della piccola Nazione portoghese che aveva da poco gettato le fondamenta di un vastissimo impero marittimo e allargato nel contempo gli orizzonti geografici e ideali dell'umanità. La spedizione di Vasco de Gama (1498), la cui impresa coronò le speranze a lungo cullate di raggiungere il favoloso Oriente via mare, ne è l'argomento centrale e il leit-motiv narrativo. Ma il proposito di C. fu quello di cantare al tempo stesso le lodi della sua patria e "le gesta gloriose dei sovrani che andarono dilatando la fede e il regno e devastando le terre infedeli d'Africa e d'Asia". Ricorrendo agli artifici tradizionali dell'epica classica, il racconto del grande viaggio di Vasco de Gama s'innesta sulla rievocazione dell'intera vicenda storica portoghese: di qui il titolo stesso del poema, perché Os Lusiados è quanto dire I Lusitani o I Portoghesi. Tant'è che una tradizione mitologica, abbracciata dai letterati del Rinascimento, voleva che proprio Luso, figlio di Bacco, avesse conquistato il Paese da lui appunto chiamato Lusitania. Si noti che, a somiglianza dell'Eneide (non sono pochi i punti di contatto tra i due poemi, a cominciare da alcuni elementi quali i concili degli dei, i sogni, le profezie), anche l'opera I Lusitani comincia in medias res: ovvero nel momento in cui Vasco de Gama sta già veleggiando in pieno Oceano Indiano; ed è soltanto in un secondo tempo che vengono rievocate le peripezie passate, quali - ad esempio - la diffusione di un'epidemia di scorbuto tra i marinai e l'ostilità dei Mori, castigati dai cristiani con l'artiglieria. L'arrivo di una tempesta mette poi a repentaglio il buon esito della spedizione, squarciando le vele, spezzando gli alberi e allagando le navi trascinate dai flutti come fuscelli: ma si tratta dell'ultima traversia prima di toccare l'agognata meta. Placatisi l'oceano e i venti, l'indomani si profila la costa di Calicut, la maggiore tra le grandi città della costa del Malabar: l'India non è più un sogno, ma una realtà. Uno degli episodi più vivi del poema non trae spunto dalla storia, bensì è il frutto della fantasia del poeta: durante il viaggio di ritorno la dea Venere, nume tutelare dei naviganti lusitani, dispone sulla loro rotta, come premio a tante fatiche e a tanti patimenti, un'isola ridente, ove trovano ad attenderli le ninfe oceanine. Al sopraggiungere dei giovani guerrieri e dei vecchi lupi di mare, le ninfe si fingono dapprima intente alla caccia o al suono di dolci strumenti e poi sciamano ovunque piene di vergogna. Al grande capitano Vasco de Gama viene riservata la compagnia della divina Tetide, pronta ad accoglierlo con onori regali nel suo fastoso palazzo di cristallo e d'oro. Durante il solenne banchetto (innaffiato con vini profumati serviti in calici di diamante), s'alza un melodioso canto che inneggia e profetizza le future imprese dei conquistatori portoghesi nell'India appena scoperta da Gama. Non manca neppure una lezione di cosmografia tolemaica in piena regola, impartita al suo eroe dalla bella Tetide. Dopo di che l'equipaggio torna a imbarcarsi. Il trionfale ritorno in patria ha come scenario la foce del Tago: a questo punto il poeta, a mo' di congedo, si rivolge al giovane re Sebastiano esortandolo a ben fare con un eloquio solenne e ornato adatto allo scopo celebrativo che s'è proposto e che s'avvale di tutti gli espedienti tecnici mutuati dalla tradizione dell'epopea classica: dalle invenzioni fantastiche alle digressioni gnomiche, dagli intermezzi narrativi ai ricorsi al soprannaturale. Né mancano rissosi concili sull'Olimpo e ripetuti interventi delle divinità antagoniste: Venere da una parte (simbolo della chiara cultura latina), e dall'altra Bacco (emblema dello spirito dell'Oriente). La fastosa solennità delle "note alte" viene non di rado intaccata, quasi corrosa, da una certa qual prosaicità, dovuta forse a certe sciatterie stilistiche ma più ancora all'indole stessa dell'autore, tutt'altro che tragica: tant'è vero che negli squarci più riusciti del poema emerge un temperamento lirico ed elegiaco, non di rado bucolico. C. è figlio del suo tempo e ben lo si sente: a differenza dei poeti pagani o paganizzanti (Ariosto), la sua arte si apparenta a quella del Tasso e degli altri poeti barocchi della Controriforma. E dire "barocco" significa dire, essenzialmente, "scenografico": con quanto di positivo e di negativo è configurato in tale aggettivo. Ma C. non è autore soltanto di un poema, bensì anche di Rime varie, raccolte e pubblicate dopo la sua morte. In mancanza d'un autografo, le prime stampe (quelle di Lisbona del 1595 e del 1598) trassero i loro materiali da sillogi manoscritte di poesia contemporanea, non sempre corrette nella lezione né esatte nelle attribuzioni, cosicché fin d'allora vennero assegnati al C. versi certamente non suoi. E peggio si comportarono gli editori posteriori, che per dar lustro alle loro pubblicazioni spogliarono sistematicamente di tantissime composizioni non pochi validi poeti, sì da ascrivere al cantore dei Lusiadi un tanto copioso quanto illegittimo patrimonio lirico. A far pulizia provvidero due edizioni critiche delle opere di C., una del 1932 e l'altra del 1946-47. L'impossibilità, salvo poche eccezioni, d'un ordinamento cronologico sia pure approssimativo, giustifica l'usuale ripartizione dei testi a seconda del loro genere: si hanno così sonetti, odi, egloghe, sestine, ottave, elegie e canzoni; e si hanno anche redondilhas, i metri di versi brevi della tradizione iberica post-trovadorica (le altre forme metriche, invece, a partire da quella del sonetto, vennero accolte nella penisola iberica con l'umanesimo e più precisamente con l'italianismo). La distinzione qui accennata tra versi tradizionali e versi moderni non è puramente formale: perché ai primi il C. riserva i temi e i motivi tradizionali, quali il lamento della donna amata e l'assoluta castità del dire, mentre alla sensualità vien lasciato libero corso solo nella sezione italianeggiante del canzoniere. Stilisticamente parlando, si può comunque dire che, nell'intera sua produzione poetica, C. si rivela come un manierista eclettico, e che questo suo manierismo, poggiandosi su elementi passionali di tempra scenografica o melodrammatica piuttosto che tragica, e sullo sforzo tutto cerebrale di tendere il più possibile l'arco del concettismo, lo colloca interamente nella categoria del barocco: ben più addentro, per esempio, di quanto non vi si porrà di lì a poco Cervantes. Del barocco C. ebbe anche quel senso del colore e della natura che anima i suoi migliori squarci lirici. Né manca qua e là, specie nei versi settenari, una lieve vena umoristica. Del C. drammaturgo, infine, ci restano gli autos: Filodemo, Anfitrione, La rappresentazione del re Seleuco. La prima di queste tre commedie, rappresentata a Gôa nel 1555 per celebrare la nomina a governatore di Francisco Barreto e pubblicata postuma nel 1587, ha sfondo romanzesco: scarso il suo valore sia teatrale sia letterario. La seconda, deriva direttamente dall'omonima commedia plautina ed è opera giovanile di scarsa importanza; unica cosa curiosa: la scrittura in parte portoghese e in parte spagnola. Quanto infine alla terza, del 1546, composta in prevalenza in versi redondilhas, parla dell'amore incestuoso di Antioco, figlio di Seleuco, per la propria matrigna Stratonica: vi sono forse di proposito allusioni a un fatto recente di cronaca regia, l'amore del principe Giovanni, il futuro re Giovanni II, per la propria matrigna, la regina Leonora: e pare che a queste allusioni il poeta debba il suo più o meno volontario esilio dalla corte (Lisbona o Coimbra 1524 o 1525 - 1580).